“LE COLONNE D’ERCOLE DEL FARE SCUOLA – COVID-19 E COSTRUZIONE DEL FUTURO” – Gaetano Fuiano

Carissimi,
vi condivido delle mie riflessioni circa il nostro essere uomini e donne di scuola e più in generale il nostro essere adulti chiamati a relazionarsi con bambini e giovani, alunni e figli. Spero possano essere occasione di crescita e un modesto contributo a trovare un senso a questo nostro tempo.

In questo periodo un virus invisibile e “misterioso”, nato in una regione lontana, dalle origini incerte e dagli esisti ancora da studiare ha avuto la forza di sconvolgere non solo le nostre vite “sociali” ma ancor più ha messo in discussione il nostro “sentire” la vita stessa. Il distanziamento sociale è diventato il primo antidoto per tentare di frenare il dilagare dell’epidemia.
Il rischio è quello che il distanziamento vada ad incidere sul nostro essere comunità umana, sulla nostra capacità di pensare, progettare e costruire futuro.
Sono un Dirigente scolastico, uno dei tanti, uno che come molti miei colleghi sono chiamati quotidianamente a districarsi tra “carte”, atti, procedimenti amministrativi. Non mi sento protagonista di nulla se non della passione che nutro verso tutto ciò che porta un nome riconducibile alla costruzione pedagogica di un possibile destino di noi tutti. Protagonista di quella tensione personale e sociale che amo definire “incontro tra destini”: quello di un alunno e il suo insegnante.
L’incontro formativo è, prima di tutto, esperienza della nostra imperfetta umanità, del nostro essere uomini, con i nostri limiti, le nostre imperfezioni.
La “tempesta pandemica in atto” provoca una radicale modificazione del modo di agire e di pensare delle persone in stretta relazione ai comportamenti, ai modi, ai tempi.
Cambia, pertanto, il paradigma della formazione. La cifra caratterizzante il processo è modificata. Deve fare i conti con la possibile presenza di quell’ “ospite inquietante” di cui parla U. Galimberti che rischia di distruggere le vite, dove “I giovani rischiano di vivere parcheggiati nella terra di nessuno dove la famiglia e la scuola non “lavorano” più, dove il tempo è vuoto e non esiste più un “noi” motivazionale.”


La sfida, che bisogna raccogliere, è quella di creare lo spazio di un incontro. La sfida è quella di far sì che i processi formativi siano ancora e prioritariamente luoghi di incontro, luoghi di incrocio fra due umanità, l’umanità di un maestro e l’umanità di un allievo.
Luoghi in cui sia possibile esercitare la nostra umanità, con alcune delle caratteristiche precise come quelle della relazionalità, dell’ascolto empatico e attivo, della comunicazione, del saper stare insieme, del cogliere le mie emozioni e quelle dell’altro.
Occorre far crescere l’interesse denso di passione, come educatori e come formatori, verso quella dimensione richiamata da Rousseau quando dice che “il nostro vero studio e la condizione umana.” Come scuola il nostro primo e vero obiettivo è attivare dei processi continui di umanizzazione dell’uomo.

Il gusto di un incontro con un altro, seppure a “distanza”, può determinare la vicenda umana che andremo a costruire e l’evolversi della storia di ognuno di noi, il modo in cui noi ci formiamo, le modalità di relazione con un contesto, i criteri che utilizzeremo per la mappatura del mondo attuale e di quello che andremo a costruire.

Ciascuno di noi, oltre alla propria materialità (il proprio corpo) esiste in quanto racconto di sé: ciascuno di noi è la sua storia, la narrazione che lui fa di se stesso.
Il primo dei bisogni è quello di essere “riconosciuti” come persone con un “volto”, cioè con una storia da raccontare e da capire e con un futuro credibile da costruire.
L’altra è di essere aiutati a vedere il domani non come un buco nero ma come un orizzonte possibile.

I nostri ragazzi manifestano, anche nelle forme della lontananza e del disagio, l’esigenza continua di avere accanto adulti che sappiano scommettere con loro e vivere la “passione” di un incontro che costruisce futuro.
Il guardarsi nella relazione educativa è il dire all’altro “tu ci sei ti riconosco, e nel vederti pongo la tua identità di uomo”.

Diventa il grido carico di speranza di un io che chiede ad un tu di stare insieme.

Il reale, il contesto di forte spaesamente in cui siamo chiamati a vivere, trova senso solo in presenza di chi dà e costruisce significato, in presenza dell’esistente, dell’umano, che proprio in quanto esistente pone l’esser-ci, cioè la possibilità del riconoscimento di sè in una situazione di grave difficoltà quale quella che stiamo vivendo.
Edith Stein ci ricorda che l’incontrare l’altro si concretizza per ognuno di noi in più dimensioni:
L’essere visibile, fisico dell’altro( il volto, lo sguardo, i gesti, il suo muoversi), il suo essere suono (la voce con il suo timbro, il suo intercalare), il suo essere corpo (lo sfioro, lo tocco, lo accarezzo) ma anche il suo essere non-fisico (la gioia, il dolore, il rimpianto, la finzione).
L’empatia, oggi più che mai, è il fondamento di tutti gli atti con cui entriamo in relazione con l’altra persona, è l’atto fondativo della relazione educativa. L’insegnamento empatico si delinea come la possibilità di comunicazione autentica per instaurare un processo trasformativo di crescita e di sviluppo.
L’empatia è il motore, per dirla con Vigotsky, di quell’insegnamento che precorre lo sviluppo, diventa cioè la possibilità di suscitare spazi inesplorati e possibili di competenze future.

E’ la domanda che mi fece un’alunna di appena quindici anni: “Preside ma perché dovrei studiare, perdere ore della mia giornata sui libri se poi, come sento sempre dire dai miei genitori, il futuro sarà disoccupazione e difficoltà?” E’ stato terribile… quanto danno possiamo fare noi adulti!
Oggi potremmo trasformare l’ultima parte della domanda in:
Perché dovrei studiare, fare scuola, dedicare tempo, energie al fare scuola? Perché farlo quando intorno a me tutto grida dolore, incertezza, confusione?
La mia esperienza, non solo di insegnante prima e di preside poi, mi dice che i giovani desiderano il futuro, lo vogliono. Non serve loro la nostra esperienza, non sono bisognosi delle nostre “ passioni tristi” (U. Galimberti), vogliono essere lanciati verso la passione, il desiderio, la motivazione, l’utopia di un sogno, desiderano oltrepassare le colonne d’Ercole della nostra, qualche volta, dimensione decadente della vita.
Non possiamo consegnare loro la tristezza delle passioni di noi adulti.
Nessuno ha il diritto di non farli entrare in campo o farli entrare già sconfitti perché “tanto ti aspetta un mondo fatto di impossibilità a….”, ripeto nessuno può distruggere l’attesa di vita dei nostri ragazzi. La sfida è aperta. Il campo di gioco è pronto. La partita sarà dura durissima….ma occorre giocarla e vincerla.

Gaetano Fuiano
Dirigente Scolastico